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Recensione: PINOCCHIO, un film di Matteo Garrone. Un autore ritrovato

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Pinocchio, un film di Matteo Garrone. Sceneggiatura di Matteo garrone e Massimo Ceccherini. Con Federico Ielapi, Roberto Benigni, Mssimo Ceccherini, Rocco Papaleo, Massimiliano Gallo, Marine Vacth, Gigi Proietti, Alida Baldari Calabria, Davide Marotta, Nino Scardina, Teco Celio, Paolo Graziosi.
Bello, bellissimo. Garrone torna ai suoi livelli massimi dopo un serie di film non così convincenti (Reality, Il racconto dei racconti, Dogman). E vince la scommessa riproponendo l’eterna storia di Pinocchio con sguardo semplice e incantato, astenendosi da ogni attualizzazione e sovrainterpretazione, da ogni sfarzo scenografico, dal gigantismo tecnologico che affligge tanto cinema fantastico. Un Pinocchio che nella sua magnificenza visiva si pone come la continuazine con altri mezzi delle tradizionali tavole illustrate dei racconti d’infanzia. Incassi strepitosi nonostante le recensioni malmostose (a riprova che da noi i critici, che siano di carta o di web, e nonostante l’ego smisurato della categoria, incidono poco). Voto 8+
Il Garrone ritrovato. Perché la vera e buona notizia è che uno dei nostri maggiori registi di cinema, forse il maggiore, sembra con questo Pinocchio aver finalmente arrestato il processo di involuzione cominciato dopo il capolavoro Gomorra, diciamo con Reality, delusione immensa dopo i primi folgoranti quindici minuti. Involuzione proseguita con Il racconto dei racconti, film della dismisura barocca mai tenuto davvero sotto controllo, e il troppo lodato Dogman (che si brucia nei primi trenta minuti cercando poi affannosamente uno sviluppo narrativo che non arriva mai). Ora, con simili immediati precedenti non mi aspettavo granché da questo Pinocchio, un’altra incursione nel fantastico italo-popolare da parte di Garrone dopo la non riuscita plurifavola tratta dal seicentesco Cunto de li cunti di Basile. Anche perché – ci si diceva – che bisogno ci sarà mai di un altro Pinocchio dopo le infinite interpretazioni più o meno libere, più o meno audaci, degli ultimi cinquanta o settant’anni, tra Walt Disney, Carmelo Bene, Giorgio Manganelli, Luigi Comencini, Roberto Benigni: altri nomi aggiungeteli voi. Mentre, oltretutto, si annunciano altri due nuovi Pinocchi filmici, uno di Guillermo del Toro in stop-motion pare ambientato nel ventennio fascista (Pinocchio quale parabola esemplare di un italiano e biografia di una nazione? Mussolini manipolatore delle masse come il gatto e la volpe? vedremo) e il live action del cartone disneyano. Troppo, anche per chi venera le avventure e disavventure orchestrate da Lorenzini-Collodi a fine Ottocento intorno al suo burattino-ragazzino (e io non mi colloco nella schiera).
Invece operazione sorprendentemente riuscita. Premiata pure dal pubblico natalizio che in poco più di una settimana ha portato in cassa quasi dieci milioni, e chi mai se lo sarebbe aspettato (strabattutto Star Wars). Pubblico che non ha dato retta a gran parte della critica, di carta e di web, che ha aggrottato il sopracciglio di fronte a questa impresa garroniana, la stessa critica che pure aveva tifato oltre ogni ragionevolezza per Dogman (sicché, e non è una postura bastiancontraria, mi ritrovo in controtendenza ancora una volta). Intanto la Berlinale annuncia una serata-evento con prima internazionale di Pinocchio, e si spera in una pronta distribuzione in Francia e sul mercato anglofono (la coproduzione italo-franco-inglese dovrebbe assicurare ampia visibilità e discreti incasssi all’estero).
Va riconosciuto a Matteo Garrone l’essersi astenuto da alcune delle più perniciose tentazioni, in primis l’attualizzazione-modernizzazione forzata del testo, e di essersi mantenuto fedele nella sostanza a Collodi senza alterare, se non marginalmente, il paesaggio storico-antropologico e geosociale di Pinocchio: tutt’al più operando uno slittamento dalla granitica toscanicità del libro a un’Italia rurale più centroappenninica, altolaziale, abruzzese, perfino pugliese. In un’opera di ricontestualizzazione linguistica – qui gli accenti toscani si mescolano ad altri più meridionali, soprattutto napoletani – che ricorda, benché con meno radicalismo, quella del Decameron di Pasolini spostato da Firenze in una Campania Felix più selvaggia e pulsionale. Garrone comunque procede con prudenza, altera – quando altera – con misura, fa suo Pinocchio senza però sovrapporcisi (quanto poi si sia attenuto all’originale o e se ne sia discosto non saprei esattamente dire, avendo letto Pinocchio molti, molti, molti anni fa e nemmeno in versione integrale; lascio ai tanti filologi, anche inattesi, spuntati in questa occasione sul web chiosare e pontificare su quanto il film rispecchi o meno Lorenzini-Collodi, io mi attengo ai miei ricordi). In fondo, Garrone ripristina come sa fare lui e con lo sguardo che lo distingue, uno sguardo configurato da e su secoli di pittura e visualità italiane, la tradizione degli album illustrati di Pinocchio, il romanzo fantastico e iniziatico del burattino di legno che voleva farsi uomo e riuscì a diventarlo dopo infinite peripezie. Quei volumi spessi e pesanti e però di aerea leggerezza visionaria che si regalavano ai ragazzini a Natale una qualche vita fa, in una vita predigitale e pre-tutto. In questo film il regista ridisegna, illustra, colora, immerge i passaggi della storia in tavole artigiananalmente elaborate e fatte cinema. Poco, se si pensa a tutte le smanie di rivistazione, reinterpretazione, revisione dei classici che pervadono le ri-narrazioni attuali, molto se si guarda invece al puro piacere suscitato dal film, al risultato che ne deriva. Che è sfolgorante, benché dscontinuo, con picchi assai elevati e passaggi meno riusciti (per dire: un Lucignolo abbstanza anonimo depotenziato della sua carica eversiva e teppistica). Rinunciando a una linea interpretativa decisa, attenendosi a una serena classicità senza la pretesa di rivoltare il testo e sovraccaricarlo di significati altri o di estrarne presunti significati segreti, limitandosi a rappresentarlo, il testo, secondo il proprio estro a tratti perfino fanciullesco, Garrone ha scontentato sia gli invasati dell’esegesi che quelli della modernizazione a ogni costo. In una semplicità, in una voluta ingenuità anche di sguardo, spiazzante per molti, ma molto apprezzata dal pubblico. Ne esce un Pinocchio rapsodico, poco compatto, che si abbandona volentieri alle suggestioni del caso e della singolarità del frammento e rinuncia a ogni pretesa totalizzante, al controllo totalitariosulla materia narrativa che è del regista-demiurgo, anzi despota-dittatore.
Altro merito è il non cedere alla tentazione del colossale a tutti i costi, come esige la voga dominante del fantastico, abbaglio in cui lo stesso Garrone era incorso con Il racconto dei racconti forse nell’intento di confezionare un ‘prodotto internazionale’. Stavolta invece niente gigantismo, zero sfarzo scenografico, se mai una pulizia di segno encomiabile che riporta il narrato alla sua dimensione di fiaba facile, di apologo popolare. Una pulizia e un minimalismo intimista che sono pure rinuncia al fastidioso tecnologismo digitale che puntualmente ci affligge in ogni cineprodotto fantasy. Tutt’al più qui si spendono i soldi per gli effetti speciali del pescecane (non balena) che inghiotte Pinocchio e Geppetto o per dare vita a quegli ibridi tra umano e animale che il regista ama tanto, la governante-badante lumaca della Fata turchina, il giudice scimmiesco del paradossale processo in cui ogni logica e buonsenso sono rovesciati e a essere puniti sono gli innocenti e assolti sono i colpevoli, già prefigurando gli incubi mitteleuropei di Franz Kafka. Il resto è soprattutto paesaggio italiano, meraviglioso e unico, dentro al quale questo Pinocchio è immerso, paesaggio rurale e montano, povero e bello, di quell’architettura spontanea che in altri tempi – tempi che pure erano miseri e violenti – ha saputo costruire scenari che oggi ci stordiscono per l’armonia tra artificiale e naturale, per i mirabili benché inconsapevoli equilibri interni (di volumi, di forme). Poteva essere il solito tripudio protervo da Film Commission, Garrone del paesaggio fa invece più che un contenitore, un elemento fondante la stessa narrazione, il contesto che interloquisce con i personaggi e ne influenza le mosse. E si resta ammirati da come si rinunci a orpelli e facili bellurie per concentrarsi sulla severa bellezza di quei borghi in cui le avventure pinocchiesce si srotolano, si pensi a quel paese dei balocchi risolto in un cortile, con una vasca d’acqua in cui sguazzare e un albero della cuccagna quasi penitenziale. Invenzioni o reinvenzioni perfettamente riuscite, come il nanesco grillo parlante napoletano, attenzione massima alla condizione infelice dei fanciulli in quell’era che sapeva essere crudele con l’infanzia. È dickensiana e davvero orrorifica la carrozza dei bambini portati via da un osceno Omino di burro dai toni melliflui e pedofili, è palese la complicità degli autori (lo script è di Garrone e Massimo Ceccherini, anche stralunata e selvaggia Volpe) per il Pinocchio anarchico che non si piega alla disciplina scolastica e ai doveri familiari. Un Pinocchio che fa sempre la cosa sbagliata che lo porterà nei guai, però mai demonizzato, visto invece con partecipazione per come si avventura nel mondo e nel processo di costruzione di sé. Anche se poi questo Pinocchio irriducibile a ogni norma finisce col farsi pericolosamente archetipo dell’antropologia italiana, della nostra intrinseca sregolatezza, del nostro feroce individualismo. Se Lorenzini-Collodi aveva scritto la storia del suo burattino (anche) come monito ai ragazzi ribelli e come elogio della scuola quale strumento unificante e normalizzante dell’appena costituito Stato Italiano (al pari di altri testi coevi o di poco successivi, come Cuore di De Amicis e il più spintamente beffardo Giornalino di Gian Burrasca), questo film pialla via ogni valenza pedagogica per seguire il suo protagonista nell’avventura e nella disavventura, nel suo itinerario da burattino a uomo (senza peraltro rispamiare i toni dark). Si esce dalla sala sedotti da questo Pinocchio che rifà le tavole illustrate di tanta letteratura infantile, e lo fa senza vergognarsene, saturo di bellezza, di tableaux costruiti con la sapienza pittorica che è da sempre di Garrone. Si temeva il peggio dalla presenza di Roberto Benigni, invece il suo Geppetto disperato e amorevole fino allo strazio è una riuscita perfetta. Quanto alle musiche dell’émigré di successo Dario Marianelli: pessime, e qui devo dar ragione a chi ne ha scritto male.
Riflessioni a latere:
1) quanto Matteo Garrone, così vicino per storia familiare alla gloriosa stagione dell’avanguardia teatrale romana (omaggiata peraltro nel suo primo, bellissimo lungometraggio Estate romana), si sarà portato dietrodell’epocale Pinocchio messo in scena in più edizioni successive da Carmelo Bene?
2) la paternità di Geppetto, padre che costruisce da sé un figlio burattino che poi si farà carne, m’è parsa proiezione e metafora della cosiddetta omogenitorialità, al sogno oggi assai diffuso di una paternità tutta e solo maschile senza partecipazione né contributo femminile che non sia quello dell'”utero in affitto” o dell’ovocita donato o venduto. O sto delirando?

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